Il convegno di studi “La Sicilia dalla conquista dell’Islam a Federico II ”, promosso dalla Società Dante Alighieri di Siracusa, ha delineato il quadro relativo ai contatti tra i siciliani e le culture succedutesi sul suo territorio. Si potrebbe per tale motivo ricorrere al titolo e alla prosa di Bufalino e definire la Sicilia “L’isola plurale”.
I relatori hanno affrontato vari aspetti per fornire un quadro di sintesi senz’altro efficace.
Margherita Spampinato, professore ordinario di Filologia romanza presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Catania, in L’identità dei Siciliani, relativamente al secolare travaglio storico dell’isola, evidenzia l’immagine che ne danno in positivo e in negativo gli studiosi. Nel 1966 F. Braudel la definiva un “continente in miniatura”, “assegnandole caratteristiche di microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate, ma nette, l’eredità di una storia lunghissima e complessa” (Margherita Spampanato). I cambiamenti storici hanno influito, ovviamente, sul linguaggio e sul carattere dei siciliani: G. M. Cecchi li definisce ardenti amici e pessimi nemici; Falcando li accomuna ai greci nella perfidia; Tomasi di Lampedusa sostiene che il siciliano è inalterabile e refrattario alla storia; Siascia elabora il concetto di sicilitudine “non sulla base di costanti biologiche-psichiche, ma in relazione ad una condizione storica dinamica che ha condizionato ogni aspetto umano e culturale dei siciliani, creando una particolare dimora vitale siciliana” (Margherita Spampanato).
Se nell’avvicendarsi delle conquiste questi possono essere alcuni tratti fondamentali degli isolani, alcuni storici , come C. Traselli, si chiedono se nei secoli vi siano stati siciliani pronti a ribellarsi.
La risposta non è mai univoca: M. Amari, portando ad esempio la rivolta dei Vespri siciliani (1282), esalta la partecipazione popolare come modello da seguire per i nuovi moti di liberazione; Giustino Fortunato e Villari guardano all’annessione della Sicilia al resto d’Italia, voluta dall’alto, con occhio critico e disilluso.
Quindi i Siciliani per lo più sono rinunciatari o, accontentandosi di poco, fanno isola da sé (L. Pirandello); inoltre si dividono in due categorie di scoglio o di mare aperto (A. Camilleri); insomma, i Siciliani soffrono di un eccesso d’identità…a tal punto che le numerose Sicilie non finiremo mai di contarle (G. Bufalino).
Bartolomeo Pirone, professore ordinario di Lingua e Letteratura araba presso l’Università di Napoli “L’Orientale” e professore incaricato presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, in Gibran Khalil Gibran: un libro senza profeta, in al Walīd: un poeta lontano dal potere e dalla corte, in Brevi considerazioni su Dante e alcune fonti islamiche, affronta l’intrecciarsi della cultura araba nel nostro patrimonio culturale.
Del poeta Gibran Khalil Gibran, nato in Libano nel 1863 e morto a N.Y. nel 1920, Pirone sottolinea il “profetismo” e la capacità di interpretare il messaggio di Dio nell’uomo e nella natura, fino a diventare egli stesso concreto riverbero dello stesso profeta. Il poeta, nella complessità dell’esperienza artistica ed umana, soprattutto in The Prophet e in The Garden of the Prophet esprime il canto per la patria e per l’isola, dà forza “al tema del recupero della propria origine, dell’ambivalenza mondanamente irretita nella spirale della molteplicità” (B. Pirone).
Al Walīd Il Ibn Yazīd (706-17 aprile 744), settimo califfo della linea marwanide degli Omayyadi, secondo il relatore, mise la poesia del suo tempo sopra una nuova via. Definito un effimero califfo dalla “personalità assolutamente inadeguata al compito…poco incline a una concezione seria e pratica della vita…” (F. Gabrieli), per la propensione all’evasione dai compiti regali e per l’indifferenza ai dettami della tradizione islamica, compose versi per diletto. I suoi canti, pieni di slancio per la vita, per gli incontri conviviali allietati dal vino, ma non privi di melanconiche angosce, fanno dimenticare la sua estraneità al potere e ammettere la sua verve poetica.
In Brevi considerazioni su Dante e alcune fonti islamiche Pirone evidenzia i contatti tra Dante e il patrimonio di tradizioni arabe e musulmane concernenti il viaggio di Muhammad nell’aldilà; cioè di quella letteratura restituita dal Liber de scala, che il nostro poeta ha forse anche conosciuto dalla voce di Brunetto Latini, suo maestro. Il relatore cerca di cogliere quali siano state le fonti (il Liber de scala, testi latini e romanzi, senz’altro anche ispanici provenienti dalla scuola di Toledo) a cui Dante poté accostarsi e di cui poté subire il fascino “sull’idea organizzativa del poema, e solo localmente su qualche episodio” come osserva Maria Corti. La figura della guida al viator, il compito di portare a perfezione la poesia, l’atmosfera, il carattere ascensionale del viaggio, alcuni topoi accomunano il testo italiano e quello arabo. Queste coincidenze hanno indotto alcuni studiosi a ipotizzare e a disquisire sui contatti diretti tra la cristianità e l’Islām già dall’ottavo secolo, non solo a causa delle crociate, ma anche grazie all’interscambio di merci, alla nascita di insediamenti latini nei territori dapprima occupati dagli arabi e viceversa, all’illuminata politica di Alfonso il Saggio e all’opera di divulgazione della scuola di Toledo.
Carla Siena, dottore in Scienze Biologiche e Scienze Naturali, dirigente di primo livello del Laboratorio di Patologia Clinica dell’Ospedale “Umberto I” di Siracusa, in Viaggiando nel gusto: odori e sapori al tempo di Federico II tratteggia un aspetto privato della corte di Federico II, eclettico imperatore incline a molteplici interessi e straordinario nei disegni politici. La dott. Siena, dopo aver dato un quadro del contesto urbano e sociale di Ortigia, indica quali umili cibi aveva sul desco il popolo minuto, come veniva commercializzato e conservato. Evidente la differenza con il cibo presente sulla tavola dei ricchi, abituati alla cacciagione pregiata cotta in modo accurato e condita da spezie importate dall’Oriente, per il loro costo un vero status-symbol, e ai sorbetti, ottenuti dalla neve conservata secondo il metodo arabo, insaporiti dal succo di agrumi.
In particolare l’imperatore amava cibarsi di formaggio, apprezzava la cottura a scapece per il pesce, e aveva un vero trasporto per le violette candite. I suoi cuochi adoperavano la ricotta per fare i dolci, e la condivano col miele, all’uso romano, o con la zucchero di canna, che gli Arabi avevano introdotto in Sicilia. I conviti imperiali non potevano non essere allietati da danzatrici, saltimbanchi, giocolieri , musici e poeti.
Paolo Giansiracusa, docente universitario ordinario, titolare della prima cattedra di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti Statale di Catania, in L’arte nell’età Sveva, ha evidenziato l’eredità stilistica dell’arte Normanna, il contesto artistico e culturale a Palermo e nell’isola, il sistema degli edifici fortificati in Puglia e in Sicilia, in particolar modo Castel del Monte e Castello Maniace, la simbologia e le allegorie negli edifici.
Dopo aver tracciato un profilo di Federico II e del contesto palermitano, il prof. Giansiracusa analizza il metodo costruttivo dei Castelli. Il Castel Del Monte, datato 1240, nel documento riguardante la sua costruzione è citato come castrum, tuttavia tale concetto non ci aiuta a chiarire le sue funzioni. Manca di tutte le strutture tipiche dell’opera militare medievale, depone a sfavore di questa ipotesi soprattutto la ricchezza e raffinatezza dell’apparato decorativo. Appare molto suggestiva l’interpretazione simbolica dell’edificio e i significati esoterici legati alla forma ottagonale, alla sequenza numerica di Fibonacci e alla proporzione aurea (1,618). Questi ultimi riferimenti ricorrono anche nel Castello Maniace, di cui è praepositus aedificorum Riccardo da Lentini. Notizie interessanti e dettagliate sull’edificazione, che va dal 1232 al 1240, ci vengono fornite dalle lettere lodigiane inviate da Federico a Riccardo. Quel che resta dell’opera federiciana è il maschio, cioè il quadrato contraffortato dalle torri cilindriche agli angoli. I conci segnati dall’intagliatore risultano ricavati dallo scavo per le fondazioni, profonde quanto l’elevato, e la malta idraulica è quella originale. La muratura scende a scarpa e la sezione muraria è m.3,60 nella parte aerea. Un’unica sala ipostila divisa in 25 spazi (5×5), terminanti in una volta a crociera archiacuta, caratterizza l’interno; le colonne centrali a fascio policrome risultano essere di epoca romana, le pietre per la copertura sono di arenaria e pietra lavica; i fregi dei capitelli a crochet sono assimilabili alle decorazioni borgognone. Il portale era arricchito da arieti di scuola lisippea.
L’opera risulta una geniale sintesi delle influenze romaniche col gotico d’oltralpe, dei canoni costruttivi dei Cistercensi con la cultura araba.